Dalla valle del Rodano alle vette più suggestive delle Alpi, il Cantone Vallese è una regione accogliente, ostinata e fiera. Così sono anche i suoi prodotti e gli abitanti. Assaggiare i primi e incontrare i secondi, è il modo migliore per scoprire storie sorprendenti. 

[Ottobre 2020]

 

A inizio ottobre, tra Briga e Martigny, il clima è sorprendentemente mite, il verde inizia appena a virare verso i gialli e rossi autunnali e il Rodano ha la sfumatura celeste opaca del ghiaccio sommerso.

Di tutte le località del Cantone Vallese, regione svizzera adagiata come un cappello sulla testa di Valle d’Aosta e Piemonte, il piccolo paese di Mund, venti minuti su per le strade di montagna sopra Briga, non sarebbe il più memorabile se non fosse per il presidio di zafferano che l’ha reso famoso nel mondo. La prima metà di ottobre è il momento ideale per inerpicarsi fino ai suoi 1300 metri di quota, perché la fioritura del crocus sativus è all’apice. 

Le condizioni ottimali per la coltivazione dei fiori si trovano generalmente in collina, tra i 300 e i 400 metri, eppure Mund gode di un microclima adatto a questa coltura e può vantare più di un primato: i campi di zafferano più alti al mondo sono anche quelli con la produzione più limitata ed esclusiva, di qualità suprema e al prezzo più alto sul mercato. 18 mila metri quadrati di terreni divisi in 120 parcelle, tutte di proprietà privata, producono tra i due e i quattro chili di zafferano ogni anno, venduti tra i 25 e i 30 franchi svizzeri al grammo (cioè tra i 23 e i 28 euro). 

L’«oro rosso» di Mund: lo zafferano più esclusivo del mondo.

Nelle ore di pieno sole, tra la tarda mattinata e il primo pomeriggio, il crocus sativus si schiude completamente: questo è il momento migliore per la raccolta dello zafferano, tutta a mano, fiore dopo fiore.

Per avere un termine di paragone, basti considerare che un grammo d’oro si compra con 35 euro.

Che poi di mercato vero e proprio non si può parlare perché lo zafferano di Mund resta in buona parte ai coltivatori locali per uso privato e solo pochi ristoratori riescono ad accaparrarsene piccole quantità. Nonostante tutto, a Mund non si vive con la rendita dello zafferano e i terreni hanno una doppia coltura, altra caratteristica che li rende unici.

 

Per undici mesi i bulbi interrati di crocus sativus restano invisibili mentre tutto intorno cresce la segale. Il fiore spunta all’improvviso, di notte. Solo occhi molto esperti riescono a riconoscerne i segni il giorno prima. Nelle ore di pieno sole, tra la tarda mattinata e il primo pomeriggio, il crocus sativus si schiude completamente: questo è il momento migliore per la raccolta, tutta a mano, fiore dopo fiore, per le successive sei settimane.

 

Ogni grammo di zafferano è il risultato della selezione di 450 stimmi ricavati da 150 fiori. Tra le settanta e le ottanta persone, su una popolazione di poco più di cinquecento abitanti, partecipano all’operazione. 

I fiori sono raccolti e portati nelle case dei coltivatori, gli stimmi devono essere prelevati prima che i petali appassiscano. Lo zafferano deve essere conservato al buio anche durante la fase di essiccazione e non si riduce in polvere ma si vende in filamenti, per evitare che possa essere mischiato con altre spezie dal colore simile ma più a buon mercato.

 

È tutto uno scambio di sorrisi e di bonjour e bonne soirée lungo i bisses, gli storici canali d’irrigazione, oggi sentieri che attraversano prati, vigne e boschi nel Vallese. Il sistema dei canali artificiali per l’irrigazione è vitale come la rete di arterie per il corpo umano, tanto che sulla banconota blu da cento franchi ne è illustrato uno. 

Bisses: sentieri mozzafiato tra vigne e pareti rocciose.

La loro origine racconta una storia di resilienza, quella della popolazione vallesana sopravvissuta all’epidemia di peste della metà del XIV secolo, ridotta di numero ma, per lo stesso motivo, più ricca. E quindi in grado di integrare l’allevamento di maiali e capre, con quello di bovini. Ma le mucche hanno bisogno di erba più grassa. Che a sua volta ha bisogno di più acqua. Da qui la necessità di costruire i bisses, che attingessero da fiumi e torrenti, e convogliassero l’acqua ai pascoli e alle vigne.

Dal Medioevo a oggi, i bisses hanno cambiato pelle. Ristrutturati e messi in sicurezza, manutenuti con estrema cura stagione dopo stagione, quei segni orizzontali poggiano sul suolo del bosco e attraversano i prati, come il Bisse du Tsittoret che da Vermala s’inerpica fino alle cascate della Tièche per poi ridiscendere ad Aminona.

A ottobre la colonna sonora è il gorgoglio dell’ultima acqua che scorre nei canali.

Un uomo cammina lungo la passerella di legno del Bisse du Rho, che taglia una parete verticale di roccia.

Ma qualche volta scavano la roccia e incidono pareti verticali a strapiombo sulle valli, come il Bisse du Rho, che parte come passeggiata da Crans-Montana e diventa spettacolare sentiero di montagna da Plans Mayens in poi.

 

Oltre ad ammirare le foreste di abeti rossi, larici e pini, vale la pena soffermarsi a guardare le foto d’epoca lungo il percorso. Testimoniano la costruzione dei tratti più impervi, imprese acrobatiche e pericolose, con gli unici mezzi a disposizione: equilibrio, mani nude, legno e roccia. Oggi invece, per stendere la Passerelle du Bisse du Rho, inaugurata nella primavera 2020, hanno lavorato architetti, ingegneri e geologi delle comunità di Icogne, Lens e Crans-Montana. Il risultato è un ponte lungo 124 metri, le due estremità ben ancorate alle montagne. Sospeso, come il fiato mentre lo si attraversa, a 80 metri sulla valle sottostante. 

 

Uno dei sentieri più lunghi è il Grand Bisse de Lens, quattordici chilometri a media quota tra Chermignon d’En Bas e la diga del Lac de Tseuzier. Tra Icogne e Lens si marcia al fresco dell’ombra dei pini su passerelle in legno, a tratti sporgenti, puntellate al dorso delle montagne. Fino a quando il sentiero fa una curva a gomito, acuto come la prua di una nave affacciata sulla valle del Rodano. 

In quel punto esatto cambia tutto, panorama e clima. A ottobre la colonna sonora è il gorgoglio dell’ultima acqua che scorre nei canali prima che vengano prosciugati per evitare che ghiaccino.

«Ottobre è il mio mese preferito». Catherine Antille-Emery, guida alpina, si sofferma ad annusare e raccogliere erbe selvatiche, seguita dalla fedele Izia, un’educatissima Golden retriever, sempre felice di scodinzolare per i bisses. Il suo nome ha un peso specifico: «Quando a Montana non c’erano strade e si arrivava solo a dorso d’asino, mio nonno Louis Antille, durante una battuta di caccia, intuì il potenziale turistico e decise di costruire il primo albergo della zona». 

Degustazioni in vigna di vini eroici.

Risale al 1893 la nascita di Crans-Montana, resort di montagna che ha saputo cavalcare ogni tendenza. «Per natura, noi vallesani, non siamo molto aperti di mentalità, ma con il turismo siamo cambiati. E siamo diventati multitasking!». Come il suo amico avvocato, racconta, che alleva mucche. Con i Valais Wine Tours, accompagna i turisti alla scoperta del patrimonio naturale e culturale del suo cantone, in giro nelle vigne, per incontrare i vignaioli e ascoltare le loro storie, e per degustare vini autoctoni. 

Mentre si va, si assaggia…

Una mano sorregge un grappolo d'uva di Petite Arvine, dagli acini piccoli e bianchi.

Le vigne, un mosaico di terreni per un totale di 5300 ettari, si arrampicano sui fianchi delle montagne, fino a un’altitudine di 800 metri e in alcuni casi anche oltre. Ogni spuntone di roccia è sfruttato al millimetro dai viticoltori e tutti possiedono almeno qualche pianta. Le condizioni estreme dei terreni impediscono l’utilizzo di qualunque mezzo meccanico a supporto di un faticoso lavoro svolto interamente dall’uomo. Solo in alcune zone il trasporto dell’uva è agevolato da monorotaie sopraelevate, un sistema che il Vallese ha in comune con le Cinque Terre in Liguria. Incredulità e ammirazione sono i sentimenti che i vigneti vallesani ispirano sia a guardarli da sotto in su sia quando cambia la prospettiva e ci si trova a camminare lungo i bisses.

 

Mentre si va, si assaggia. Le cantine hanno adibito mazots e garettes, casotti per gli attrezzi e terrazze di servizio, a punti di ristoro per degustazioni di vini, ovviamente, ma anche di piatti della tradizione locale.

Degli oltre cinquanta vitigni coltivati in Vallese, il Petite Arvine è il principe degli autoctoni. Ricavato da acini piccoli e bianchi, dal sapore agrumato, lascia una nota salata alla fine. Si sposa benissimo con la raclette (formaggio fuso), ma è perfetto con una cucina orientale di pesce, con il sushi e con i crostacei. 

Tra i vitigni tradizionali, il Fendant è presente nel Vallese dal 1848 ed è soprannominato il “vino della sete” per quanto è diffuso e utilizzato nel quotidiano. Il Cornalin, ideale con la selvaggina e la cacciagione, oggi è il vitigno rosso per antonomasia nel Vallese ma la sua storia è stata piuttosto travagliata. C’è voluta l’analisi del DNA per scoprire che si tratta di un incrocio naturale tra due vitigni valdostani, il Petit Rouge e il Mayolet, introdotto nel Vallese fin dal XIII secolo attraverso il Gran San Bernardo, e scomparso nella sua zona di origine. 

Ricette e tatuaggi: alla table d’hôte di Benjamin Meng.

Sull’orlo dell’estinzione a favore del più resistente Pinot Nero, è stato riportato sulle tavole all’inizio degli anni ’70, grazie all’impegno di un gruppo di appassionati.

 

Sulla Rue Principale di Lens, la Maison des Chèvres offre un’esperienza culturale e culinaria. Mentre al primo piano dell’edificio costruito nel 1644, uno dei più antichi del paese, la zuppa di ortiche sobbolle sul potager (focolare in muratura rivestito di mattoni e alimentato a legna), l’assiette valaisanne è già imbandito con salumi, carne secca e formaggi. Cucina e racconta, Benjamin Meng. 

Il rito della raclette, vera e propria cerimonia sociale.

Con il braccio tatuato e nerboruto, Benjamin Meng fuma la pipa.

Dopo aver viaggiato come cuoco in Europa, Africa, Asia e America, dieci anni fa è tornato a casa per salvare dall’oblio le abitudini culinarie di un tempo, coltivare verdure dimenticate e rivisitare le ricette vallesane di una volta. Nel suo regno, cucina e sala da pranzo, sono stipati oggetti che accennano alla sua storia: il cappello di un maestro di scuola a lui molto caro, il fucile del nonno, la pipa della nonna.

 

Sulla table d’hôte iniziano ad arrivare patate al cartoccio, ciotole di sottaceti e funghi sott’olio. È il segnale che sta per andare in scena la raclette, vera e propria cerimonia sociale.

Con il braccio tatuato e nerboruto solleva la mezzaluna di formaggio dal fornello e la inclina verso il piatto. «I tatuaggi sono una cosa di famiglia», racconta. «Dal lato di mio padre c’è una spada, da quello di mia madre una rosa. Entrambi minatori, i tatuaggi erano segni di riconoscimento in caso d’incidente». Poi, con la lama del coltello, spazzola via il primo strato di formaggio fuso, pronto a ripetere il gesto finché gli ospiti sono sazi. E gli assaggi si fanno gara nel rito della raclette che passa di piatto in piatto, un giro dopo l’altro. Per finire, è servito il pan perdue, un dolce di recupero, cotto nel forno, fatto con pane vecchio lasciato in ammollo nel latte, uova, zucchero e frutta, quella che c’è in casa. 

Sapori e tradizioni, architetture e geografia, raccontano di una vita che, fino al secolo scorso, era vissuta in verticale, per seguire il ritmo delle stagioni nelle vigne, negli orti e negli alpeggi. La Traversée des Alpages, tra Merbé e Aminona, attraversa i pascoli d’alta quota e offre alcuni tra gli affacci più suggestivi sui 4.000 metri del Vallese, la famosa Corona Imperiale. Uno dei migliori è la terrazza del ristorante dell’Hameau de Colombire

Una vita in verticale: il remuage di Eugénie Gebhard-Mudry.

Il complesso dei mayen, le abitazioni che prendono il nome dal pascolo intermedio estivo, è stato convertito in alloggi spartani con comfort da rifugio. Tre degli edifici ospitano il museo che ne racconta la storia. «Avevo 16 anni la prima volta che ho dovuto mungere una mucca», ricorda Eugénie Gebhard-Mudry, testimone diretta del remuage stagionale, nel vestito tradizionale della domenica appartenuto alla mamma Justine. «Mi sono venuti i calli alle mani e piangevo dal dolore. Dopo tutta la fatica, raccolsi appena 10 litri di latte, quando la media era 15». Nonostante la vita fosse dura, giura di conservare solo bei ricordi, che elargisce con passione a chi ha voglia di ascoltarla.

Street art in alta quota: il festival creato da Gregory Pages.

In primo piano, un'opera di street art su un muro. Sullo sfondo lo chalet della Cabane Des Violettes, rifugio con ristorante e camere.

Da qualche anno, ad alta quota è arrivata anche la street art. «Tutto è iniziato con un’idea folle, in una giornata sugli sci», racconta Gregory Pages, cresciuto in mezzo all’arte nella galleria del padre a Baden-Baden. È lui il fondatore del VAF, festival e museo a cielo aperto dedicato d’arte urbana, tra i 1500 e i 3000 metri di altitudine.

«Guardando i vecchi chalet abbandonati, cubi di cemento grigio in mezzo alla natura, mi sono chiesto: perché non proporre agli artisti di intervenire sulle stazioni della funivia, nei parcheggi e su altri muri vuoti?».

 

In cinque anni sono arrivati a Crans-Montana quarantacinque artisti da tutto il mondo per lasciare il segno con settanta opere. Alcune durano nel tempo. Altre, più esposte agli elementi, come una tela di Penelope, si disfano sotto la neve, il ghiaccio e l’acqua.

«Non è affatto un male. Per definizione, i graffiti sono opere d’arte che hanno i loro giorni migliori alle spalle. Le stesse superfici vengono semplicemente ridipinte da altri artisti».

 

Anche il dialogo tra arte e natura può rigenerarsi, come la vita, al ritmo delle stagioni.

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Foto: Fabiana Magrì

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