Niente può scalfire il fascino di Tel Aviv
Case bianche in stile Bauhaus e lunghe spiagge ininterrotte color pastello. Tel Aviv ammicca dall’estremità del bacino del Mediterraneo.
E resta una delle mete da sogno in Medio Oriente.
[Novembre 2020]
Basta un’oretta seduti a un caffè su Shenkin per vedere: sfrecciare un monopattino elettrico, una bici elettrica, uno skateboard elettrico; una giovane mamma ebrea ortodossa spingere una carrozzina con due gemelli, seguita da altri tre figli; una ragazza in shorts e top da corsa superare la giovane mamma ortodossa; sette cani per tre padroni prima giocare e poi azzuffarsi; un uomo in giacca e cravatta, raro come un rinoceronte di Sumatra; un ragazzo in muta, con la tavola da surf sotto braccio.
Questa città ibrida, divisa tra Medio Oriente e Occidente, tra religione e laicismo, ha la grande capacità di sorprendere chiunque, per un verso o per l’altro.
Qualunque idea uno si sia fatto a priori, arriva un momento o un luogo – c’è da giurarci – in cui Tel Aviv mostra un’altra faccia. Quella che proprio non ti saresti aspettato.
Tel Aviv è sbagliata come un Negroni sbagliato. E fa lo stesso effetto. Tipo: passeggiare dentro un set di moda urban style, dove ciò che altrove risulterebbe antiestetico, qui emana un flair irresistibile.
Shenkin, la versatilità.
Lev Hair, l’eleganza.
Florentin, l’hipsterismo.
Tel Aviv è piena come una pita con i falafel. È speziata come un tegame di shakshuka. Ha il sapore agrodolce del succo di rapa rossa e mela. Altre volte quello mordace della limonata fresca alla menta.
Tel Aviv pulsa nelle vene, prima assonnata e ciondolante, poi improvvisamente frenetica.
A tratti, come a Lev Hair (che in ebraico significa “il cuore della città”), sa essere elegante, con quelle linee orizzontali e verticali, telai di luce e ombra. E quelle curve concave e convesse, grammatica del Bauhaus parlato con una leggera inflessione dialettale, di razionalità tedesca piegata a condizioni mediorientali. È la Tel Aviv dei lunghi viali alberati, dei chioschi di panini e caffè all’ombra di grattacieli e alberi di fuoco.
La città colorata e assordante delle bancarelle di frutta e spezie di Shuk HaCarmel è divertente ma è quella sgarrupata di Florentin, Noga e Giaffa che è davvero irresistibile. Quella trasandata dei ragazzi che escono in pigiama, portano la barba incolta, vivono in simbiosi con il cane, mangiano vegano e ascoltano musica indie. Quella degli edifici mezzi diroccati, trasformati in templi dello yoga, del pilates e della danza. Dei caffè arredati con mobilio recuperato da Shuk HaPishpishim, il mercato delle pulci.
È la Tel Aviv di Kibbutz Galuyot, Kiryat Hamelacha e Shapira, il profondo sud della città modellato dagli studi degli artisti, dagli atelier degli stilisti, dalle botteghe dei designer di gioielli, dai laboratori di ceramica.
Tel Aviv ha il corpo atletico della gioventù che vive in osmosi con la spiaggia. L’alba è dei surfisti e degli yogi, il giorno appartiene alle partite di beach volley, al rumore sordo e ipnotico della pallina che rimbalza sui racchettoni, ai lanci dei frisbee, ai voli acquatici del kitesurf e al sudore delle palestre all’aperto. La notte è dei runner che consumano la Tayelet – il lungomare – avanti e indietro, a volte accompagnati dai cani o spingendo passeggini.
La Tayelet non ha età, non ha orario e non ha stagione. Giornate calde, adatte a scoprirsi qualche ora al sole del mezzogiorno, ce ne sono anche in inverno.
La Tayelet: il lungomare degli atleti.
I russi, una maggioranza aliena in città, non si fanno problemi e azzardano perfino un bagno. Quasi nessuno, invece, nuota verso il largo. Pochi vanno in barca. E mai di notte.
Il rapporto tra Tel Aviv e il mare la dice lunga sulle origini della città. Una foto in bianco e nero, stampata sul fianco del chiosco di informazioni turistiche alla fine del Boulevard Rothschild, ritrae un capannello di uomini, donne e bambini, vestiti di tutto punto, riuniti sulle dune di sabbia della spiaggia, poco più a nord di Giaffa. Sono le sessanta famiglie di ebrei, originari dello Yemen e dell’Europa dell’est, che nel 1909 fondarono Tel Aviv. È come se, fin da allora, nell’imprinting della città il mare abbia rappresentato più che altro un esotico e benefico sfondo. Sebbene il Mediterraneo sia stato – e sia tuttora – l’unico confine veramente aperto di Israele, l’acqua è un elemento con cui la città sta appena iniziando a maturare confidenza e fiducia.
I contrasti. La materia di cui è fatto il tessuto urbano di Tel Aviv.
Le spiagge – non solo a Tel Aviv ma lungo tutto il litorale di Israele – sono vegliate dalle torrette dei baywatch e in loro assenza la balneazione sarebbe addirittura vietata. Mettici poi che, per chi ama navigare o immergersi, la costa è un rettilineo uniforme, molta sabbia e pochi scogli, che offre poche digressioni. Pescare di notte? È un’attività che non sfiora nemmeno l’immaginazione. Piuttosto il mare è vissuto come un prolungamento della movida. Ci si va per divertirsi e per fare all’aperto ciò che altrimenti si farebbe a casa: giocare, bere, mangiare, ascoltare musica, socializzare.
In bicicletta o in monopattino, nella capitale della sharing mobility, si possono percorrere ininterrottamente chilometri e chilometri di costa tra Bat Yam, città satellite a sud di Tel Aviv, ed Herzliya, centro hi-tech, uno dei cuori pulsanti della Start Up Nation. 130 chilometri di piste ciclabili e pedonali per una città nemmeno tanto grande: è qualcosa che richiede uno sforzo di immaginazione e allenamento.
Ajami, film arabo israeliano del 2009, porta il nome di un sobborgo di Giaffa, lontano dai vicoli in pietra liscia del quartiere antico, dalle vie affollate di Shuk HaPishpishim e dai ristoranti turistici del porticciolo.
Qui ci sono ancora galli e galline che starnazzano liberi per strada, piccoli forni di pite e burekas, il bugigattolo dove si friggono falafel – e soltanto quelli – per poche ore la mattina.
Là dove Ajami incontra la spiaggia, il Medio Oriente lascia di nuovo il posto all’Occidente: un ristorante di pesce prende il nome da una località della Costa Azzurra e, proprio sotto la collina del cimitero musulmano, il Centro Peres per la Pace e l’Innovazione – progettato da Massimiliano Fuksas – presenta al mondo il meglio della Start Up Nation.
Questa convivenza di poli opposti è l’impronta digitale che Tel Aviv e Israele lasciano su qualunque superficie umana e urbana. Come la spiaggia recintata degli ebrei ortodossi, accessibile a giorni alterni a uomini e donne, che confina con lo stabilimento LGBT: staccionate di legno scuro accanto a ombrelloni arcobaleno.
Ah, avere ancora vent’anni e studiare all’Università di Tel Aviv! Ci si può pur sempre andare a passeggio, dentro il campus, per scrutare i futuri scienziati, gli intellettuali, gli imprenditori. E per visitare edifici belli dentro e fuori. La Scuola di Scienze Ambientali, pietra miliare dell’edilizia sostenibile in Israele, ha una perla gigante incastonata nella facciata. Sembra un forziere del tesoro, o un’Arca di Noè, il Museo di Storia Naturale. E c’è un viale dove la grande sinagoga Cymbalista progettata da Mario Botta, ricoperta di mattoni in pietra di Verona, si trova faccia a faccia con il Checkpoint Building, sede di scienze informatiche a firma dello studio israeliano Kimmel Eshkolot (lo stesso del museo di storia naturale), un involucro di pixel di vetro ispirato al cloud computing. Il campus è in collina. Da qui ci si affaccia sul grande parco che accompagna per l’ultimo tratto il più lungo fiume costiero in Israele, lo Yarkon, fino alla foce nel Mediterraneo.
Come un periscopio, una mongolfiera sale dal parco fino all’altezza dell’università. Di notte, con il suo bagliore, è facile scambiarla per la luna piena.
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Foto: Fabiana Magrì
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